Green e social washing, le pratiche ingannevoli delle aziende

C'è chi è davvero green e c'è chi mente. I dati del rapporto "Greenwashing 2025"

Nascondere la realtà dietro un’immagine ecologica. Ecco come riconoscere le aziende che praticano “greenwashing”.

Nascondere la realtà dietro un’immagine ecologica. Ecco come riconoscere le aziende che praticano “greenwashing”.

Materiali riciclati, campagne a favore dell’ambiente e investimenti in energia rinnovabile. Questi sono solo alcuni esempi di pratiche green che molte aziende mettono in atto per evidenziare, agli occhi dei consumatori, il loro impegno verso processi di produzione più puliti e sostenibili. Ma non è tutto realmente “green” quello che luccica.

In alcuni casi si parla infatti di “greenwashing“, un termine coniato nel 1986 dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld, nato dalla fusione delle parole inglesi “green” (verde) e “whitewashing” (imbiancare, insabbiare, nascondere la verità).  In sostanza, si riferisce alla pratica di aziende, organizzazioni o persino governi, di presentare un’immagine di sé come rispettosa dell’ambiente e impegnata nella sostenibilità, quando poi, in realtà, le loro azioni concrete in questa direzione sono minime, fuorvianti o addirittura inesistenti.

Si tratta di una strategia di marketing ingannevole che sfrutta la crescente sensibilità del pubblico verso le tematiche ambientali per migliorare la propria reputazione: più consumatori “green” più profitti. Si parla anche di “social washing” (lavaggio sociale), un’attività di greenwashing applicata al contesto sociale, priva di etica e reale sensibilità, dove le aziende fanno sembrare che siano più impegnate nella lotta contro problemi sociali rispetto a quanto lo siano effettivamente.

Il vero problema è che, le aziende realmente impegnate nella sostenibilità, si trovano a competere con aziende che ottengono un vantaggio reputazionale a basso costo attraverso affermazioni ambientali superficiali o false.

Il rapporto “Greenwashing 2025”

Un’indagine della Commissione europea che ha analizzato 344 dichiarazioni ambientali, ha rivelato che il 42% di queste risultavano “esagerate, false o ingannevoli”, mentre il 37% conteneva “formulazioni vaghe e generiche”.

Nell’ambito di Circonomìa – Festival dell’economia circolare, iniziativa organizzata dalla Cooperativa Erica, in collaborazione con numerose realtà tra cui il Kyoto Club, è stato presentato anche il rapporto “Greenwashing 2025”, secondo il quale, tra le pratiche più comuni legate al greenwashing ci sono: una comunicazione scorretta, reticente ed omissiva, per merito di un linguaggio vago; abuso di slogan volutamente “Green”; mistificazione delle performances ambientali.

A questo vanno aggiunte poi iniziative come fornire etichette di sostenibilità non basate su schemi di certificazioni approvati, oppure presentare i beni come riparabili quando in realtà non lo sono.

Il caos di Shein, colosso del fast fashion

Un caso emblematico segnalato dal rapporto è quello di Shein, brand cinese del fast fashion, verso il quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) ha avviato un’istruttoria. L’azienda avrebbe cercato di veicolare un’immagine di sostenibilità produttiva con “dichiarazioni ambientali generiche, vaghe, confuse e/o fuorvianti in tema di circolarità e di qualità dei prodotti e del loro consumo responsabile”. In particolare, la collezione “evoluSHEIN” non avrebbe informato i consumatori sul fatto che i capi non fossero riciclabili.

Inoltre, l’azienda enfatizzerebbe in maniera generica il proprio impegno nel processo di decarbonizzazione delle attività, mentre gli obiettivi indicati sul sito web apparirebbero contraddetti dal consistente incremento delle emissioni di gas serra indicato nei rapporti sulla sostenibilità di Shein per il 2022 e il 2023.

L’istruttoria dell’AGCM evidenzia la crescente attenzione delle autorità verso le pratiche di greenwashing, soprattutto in settori ad alto impatto ambientale come il fast fashion. Questo caso sottolinea l’importanza di una comunicazione trasparente e verificabile da parte delle aziende riguardo alle proprie politiche di sostenibilità, in un contesto in cui i consumatori sono sempre più sensibili alle tematiche ambientali.

Le azioni dell’Ue per contrastare il fenomeno

In questo contesto, l’Ue ha formulato una serie di norme per garantire ai cittadini la possibilità di compiere scelte più informate e rispettose dell’ambiente. Tra queste c’è la “Direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde”, che dovrà essere recepita dagli Stati membri dell’Ue entro il 27 marzo 2026, a cui si è aggiunta la “Direttiva Green Claims”, che dovrebbe arrivare a un testo definitivo entro la fine dell’anno.

Oltre questo anche due normative europee: la “Corporate Sustainability Reporting Directive (Csrd)”, incentrata sulla rendicontazione di sostenibilità da parte delle aziende, e la “Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Csddd)”, che si occupa invece di due diligence sostenibile. Nel primo caso, l’obiettivo della norma è introdurre standard europei uniformi e obblighi di verifica affinché i dati sulla sostenibilità siano affidabili e trasparenti. Mentre nel secondo caso, si introduce l’obbligo di “identificare, prevenire, attenuare e rimediare agli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente lungo l’intera catena del valore“.

Tuttavia, un cambiamento di approccio della stessa Ue potrebbe rallentare questi progressi normativi. Lo scorso 26 febbraio Bruxelles ha presentato il “Pacchetto Omnibus”, ovvero una serie di proposte legislative per semplificare le norme e assistere le imprese che non sempre riescono a seguire regolamenti spesso piuttosto complessi. Tra le altre cose, l’Ue punta “ad una riduzione di almeno il 25% degli oneri amministrativi e almeno il 35% per le PMI fino alla fine di questo mandato”. Con l’approvazione del “Pacchetto Omnibus” e il lancio del meccanismo “stop the clock”, l’Ue, quindi, sta semplificando le regole per le imprese in materia di sostenibilità, con possibili ricadute sul controllo di fenomeni come il greenwashing.

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