Inquinamento da plastica in mare: cause, conseguenze e soluzioni

Se filtrassimo tutte le acque salate del mondo, scopriremmo che ogni chilometro quadrato di esse contiene circa 46.000 micro particelle di plastica in sospensione.

Numeri impressionanti di un fenomeno che non è circoscritto alle cinque “isole di plastica” in continuo accrescimento negli Oceani ma tocca anche il nostro Mar Mediterraneo.

Come ricorda l’UNESCO, il fragile equilibrio della vita marina animale e vegetale è scosso dalla concentrazione sempre più elevata di plastiche di ogni tipo e la catena alimentare sta subendo danni forse irreparabili.

  • Siamo arrivati ad un punto di non ritorno?
  • Abbiamo ancora tempo per invertire la rotta?
  • Possiamo contribuire a ridurre la quantità di plastica che finisce in mare?

Per rispondere a queste domande, capiamo bene lo scenario.


Come la plastica finisce in mare

I dati dello studio di Science Advances parlano chiaro: la produzione mondiale di resine e fibre plastiche è cresciuta dai 2 milioni di tonnellate del 1950 ai 380 del 2015.
Oltre 8.300 milioni di tonnellate prodotte in 65 anni hanno reso la plastica uno dei simboli industriali, con cemento ed acciaio, dell’era dell’”Antropocene”, in sostanza l’epoca geologica in cui viviamo in questo momento.
E’ entrata a tal punto nella nostra quotidianità che risulta difficile pensare ad un oggetto che non contenga polimeri, anche in minima parte.

 

Ma questa enorme produzione ha il suo rovescio della medaglia.
La plastica è infatti il prodotto sintetico a più lunga conservazione, si degrada completamente solo in centinaia di anni.
E’ logico quindi che, se non bruciata o riciclata correttamente, finisca nell’ambiente favorendo l’alterazione di ecosistemi troppo delicati.

Purtroppo in questi anni di crescente domanda, solo il 20% della plastica prodotta è stato riciclato o incenerito. Tutto il resto si è accumulato come scarto a terra e in acqua.
Di conseguenza dai 4 ai 12 milioni di tonnellate di plastica finiscono nei mari di tutto il mondo ogni anno, causando l’80% dell’inquinamento marino.
Rifiuti che per i 4/5 entrano in mare sospinti dal vento o trascinati dagli scarichi urbani e dai fiumi. Il resto è prodotto direttamente dalle navi che solcano i mari, soprattutto pescherecci ma anche navi mercantili ed imbarcazioni turistiche di tutte le stazze.


Le caratteristiche dell’inquinamento marino da plastica

Dalla Fossa delle Marianne ai poli, residui di plastica sono stati trovati praticamente ovunque nei mari e negli oceani.

Bottiglie, imballaggi, reti da pesca, sacchetti, fazzoletti, mozziconi e qualunque altro oggetto in plastica una volta finito in acqua si spezza in frammenti più piccoli per azione dell’erosione e delle correnti.

Come dimostrato da diversi esperti, questi frammenti, che possono raggiungere dimensioni microscopiche inferiori ai 5 mm di diametro, costituiscono una fra le principali cause di morte per soffocamento di molti pesci ed uccelli marini poiché vengono scambiati per cibo.

A causa di ciò, 115 specie marine sono a rischio, dai mammiferi agli anfibi.

L’ingerimento accidentale di plastica scambiata per plancton o meduse è un fenomeno così comune che il 52% delle tartarughe marine ne ha subito gli effetti.


Aspetti positivi e negativi della plastica

La storia della plastica ha origini lontane, risalenti alla seconda metà del 19° secolo. Con la scoperta del nylon nel 1935 l’utilizzo di fibre sintetiche esplode e si diffonde in tutti i settori industriali soprattutto per la produzione di beni di largo consumo.

Una crescita costante favorita dall’aumento esponenziale dell’estrazione di idrocarburi, dallo sviluppo tecnologico e dalla conseguente riduzione dei costi di trasformazione.
Perché plastica, petrolio e metano vanno a braccetto.

Ed ora, sotto qualunque formula chimica dal PET al poliestere, è parte della nostra quotidianità.

Con i problemi che conosciamo:
1) non è un materiale biodegradabile
2) è fonte di inquinamento per un suo cattivo smaltimento

Negli ultimi anni abbiamo scoperto le bioplastiche, a minore impatto ambientale, create dalla trasformazione dei polimeri derivati dal mais ed altre specie vegetali.

Ma se da un lato abbiamo risolto il problema della degradabilità, dall’altro ne abbiamo creati di nuovi come il land grabbing o la conversione di terreni destinati alla produzione alimentare in terreni destinati a scopi puramente “industriali”.

Qualunque tentativo di renderci indipendenti dall’utilizzo di plastiche sembra portare a conseguenze inaspettate.

E allora, come fare per ridurre l’impatto di questi materiali sull’ambiente?


Quali sono i rimedi possibili per ridurre l’uso di plastica

Secondo le stime più affidabili, nel 2050 avremo prodotto più di 25.000 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, di cui la maggior parte di provenienza domestica.

Solo una piccola parte verrà riciclata o incenerita.

Nel nostro piccolo, se vogliamo difendere la salute dei mari e preservarne le forme di vita, la prima cosa da fare è cambiare le nostre abitudini di acquisto.

Come? Applicando i principi delle 4 R.

– Ridurre: optare per prodotti con meno imballaggi, borse in stoffa, batterie ricaricabili…

– Riusare: scegliere il vuoto a rendere, il vetro al posto della plastica…

– Riciclare: selezionare i rifiuti, adottare la raccolta differenziata…

– Recuperare: produrre oggetti diversi dalla loro funzione originale, inventare nuovi utilizzi…


Cosa stanno facendo gli stati per rimediare all’inquinamento da plastica negli oceani

Se 17 milioni di tonnellate di plastica sono state trovate perfino nelle remote e sperdute isole Pitcairn, in pieno Oceano Pacifico è evidente che il contrasto all’avvelenamento dei mari causato da questa “zuppa plastica globale” non può essere demandato solo all’azione dei singoli.

Progetti come The Ocean Cleanup messo in acqua dal giovanissimo Boyan Slat, #RethinkPlastic del network Plastic Oceans, oppure attività di sensibilizzazione promosse da organizzazioni internazionali come Greenpeace da sole non bastano, perché incidono sugli effetti e non sulle cause del fenomeno.

Le decisioni prese dai singoli stati e dalla comunità internazionale sono le uniche che possono abbattere drasticamente l’inquinamento dei mari causato dai rifiuti plastici.

Iniziative che devono essere guidate da principi di salvaguardia e contenimento, per ridurre in primo luogo quella parte maggioritaria di plastica che dalla terra finisce in mare.

Ripulendo i fiumi, ad esempio, che sono tra le principali fonti di rilascio di materiali plastici nelle acque salate di mari ed oceani.

Purtroppo una recente risoluzione dell’Enviromental Assembly delle Nazioni Unite dedicata al tema è stata rimandata al mittente da parte di Stati Uniti, Cina ed India, i maggiori produttori mondiali di rifiuti plastici.

La strada è quindi tutta in salita perché, a fianco delle necessarie esigenze di salvaguardia e mantenimento della vita degli oceani, si accompagnano interessi economici ed industriali che non vedono di buon occhio controlli più stringenti ed efficaci.

E in Italia si muove qualcosa?

L’approvazione della legge che ha imposto il pagamento per l’utilizzo di shopper biodegradabili e compostabili dal 1° Gennaio 2018, secondo le indicazioni della direttiva 2015/720 dell’Unione Europea, è solo un primo passo verso la riduzione dell’uso di plastica da imballaggio.

Tuttavia, prima di percepire una reale inversione di tendenza, la strada da percorrere è ancora lunga.

L’indagine Beach Litter di Legambiente, che monitora la quantità di rifiuti sulle spiagge italiane, racconta di una media di 670 rifiuti ogni 100 metri.

La plastica si conferma il materiale più trovato (84% degli oggetti rinvenuti), seguita da vetro/ceramica (4,4%), metallo (4%), carta e cartone (3%).

Reti per la coltivazione di mitili, tappi e coperchi, frammenti di rifiuti, mozziconi, bottiglie e contenitori, bastoncini cotonati, stoviglie usa e getta e frammenti di polistirolo: ecco cosa possiamo trovare sulle nostre spiagge. Letteralmente di tutto.

E la scorretta gestione dei rifiuti urbani è responsabile per una quota pari al 50%.

Guardando poi alla “vita” degli oggetti rinvenuti, il 64% di essi è destinato al packaging: oggetti di brevissima durata nati per servire come usa e getta.

Da un lato è meritorio l’impegno di privati ed associazioni per ripulire le nostre bellissime spiagge (come il progetto Clean-Up The Med promosso sempre da Legambiente).

E’ tuttavia evidente che senza un deciso cambiamento di abitudini d’acquisto, corrette pratiche di riciclo, riduzione, recupero, riutilizzo degli oggetti in plastica, ci troveremo sempre al punto di partenza, in un eterno gioco dell’oca.

Possiamo andare in spiaggia a caccia di plastica.
Oppure a rilassarci evitando che la plastica ci finisca.
La scelta dipende solo da noi.

 

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