Moda green e sostenibile a Westminster

A Londra si è recentemente discusso dell’industria della moda, in modo particolare del suo impatto sull’ambiente: attraverso un sondaggio inviato ai dieci principali retail di moda del Regno Unito, l’Environmental Audit Committee ha esaminato le condizioni di lavoro e la sostenibilità del settore.

 

L’indagine

In seguito alla discussione della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite sull’impatto dell’industria della moda sull’ambiente, che ha rivelato che al settore moda è da imputare il 20% dello spreco globale di acqua e il 10% delle emissioni di anidride carbonica, e che circa dell’85% dei vestiti prodotti finisce in discarica, ogni nazione sta cercando di correre ai ripari.

La Commissione ha studiato l’impatto ambientale e sociale della moda britannica, con l’obiettivo di stabilire delle linee guida per la diminuzione della produzione di carbonio e dell’impronta idrica, il corretto “sfruttamento” delle risorse,  il tema del riciclo degli abiti, la riduzione degli sprechi, la retribuzione equa dei lavoratori.

I principali problemi provengono dal fast fashion, l’abbigliamento low cost che incoraggia gli acquirenti a un rapido ricambio: i prodotti messi in commercio dalle grandi catene della moda, più attenti alla quantità che alla qualità, sono poco duraturi e finiscono troppo spesso nei bidoni dell’indifferenziata. L’abbigliamento prodotto ha un tempo di vita, a prezzo pieno, sugli scaffali, inferiore a 12 settimane, poi si avvia ad essere progressivamente scontato: in questo modo i consumatori, invogliati dai ribassi, sono indirizzati ad un consumo continuo e le stime lo confermano: oggi, in tutto il mondo, viene acquistato circa il 400% di capi in più rispetto a 20 anni fa. 

Un altro annoso problema è quello delle condizioni dei lavoratori, rispetto al quale la Commissione ha rilevato connessioni dirette tra produzione di moda a basso costo e lavoro sottopagato.

 

Come risolvere il problema?

Il primo passo è a una maggior trasparenza: solo in questo modo le criticità lungo tutta la catena, dalla produzione di tessuti alla vendita, potranno essere identificate, affrontate e risolte.

Secondo passo è approvare le leggi del Due Diligence, processo attraverso il quale le aziende identificano, monitorano e misurano il loro impatto ambientale e il rispetto dei diritti umani nelle loro catene. Così come ricorrere a una legge, tipo la Duty of Vigilance francese, che impone di attuare un efficace piano di vigilanza per affrontare la situazione sia dal punto di vista della filiera e dell’inquinamento che dei diritti umani, potrebbe essere utile.

Terzo passo è sfruttare il cambiamento culturale delle nuove generazioni sempre più interessate alla tutela dell’ambiente e alla possibilità di essere “sostenibili” acquistando da marchi vicini alla tutela ambientale.

Pambianconews, riporta che tra le proposte avanzate, c’è anche quella di Alan Wheeler, numero uno della Textile Recycling Association: le aziende che evidenziano progressi nella creazione di capi riciclabili dovrebbero beneficiare di sgravi fiscali.

 

Conclusioni

E’ importante dunque che in una nazione come la Gran Bretagna, dove i consumi di abbigliamento sembrano essere più alti che negli altri Paesi europei (si parla di circa 26,7 chilogrammi pro capite all’anno, contro i 16,7 chilogrammi della Germania e i 16 chilogrammi della Danimarca, rispettivamente al secondo e terzo posto) si stia avviando un lavoro di riflessione per ridurre l’impatto ambientale dell’intera filiera prestando attenzione anche alla salvaguardia dei lavoratori.

 

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