9 Febbraio 2018 3 min di lettura
Per il futuro il critico d’arte sostiene che occorre “rivedere il rapporto con il patrimonio che abbiamo già invece che produrne di nuovo”
9 Febbraio 2018 3 min di lettura
“L’energia che apparteneva al mondo dell’arte è passata al design”. La frase fu pronunciata dal critico d’arte Philippe Daverio a Prato durante un incontro al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, risalente a qualche anno fa. Gli abbiamo chiesto di approfondire questa riflessione, aggiungendo la variabile ecologica che appartiene senza ombra di dubbio al mondo contemporaneo.
Anche i rifiuti sono entrati nella ‘bulimia’ del guadagno. Un tempo, quando erano anche meno, si consideravano semplicemente una risorsa, si consumavano in casa. Come stanno oggi le cose. È tutta una questione finanziaria?
Il tema è quello del design che affronta la ri-programmazione dei materiali non interamente consumati. Noi viviamo in una civiltà che produce molto più di quanto non consuma, veri e propri esuberi che non riusciamo a utilizzare integralmente. Sono questi esuberi che diventano oggetto di recupero, nel campo dell’arte come del design. Da questo fenomeno di iper produttività si è generata una coscienza: tutto il neo-dada, dal primo gesto di Duchamp a quelli più recenti di Daniel Spoerri, va rivisto in questa ottica. Per rispondere alla domanda direi che è una questione più di coscienza che finanziaria: prendere ciò che rimane come residuo poetico di un oggetto e dargli una seconda vita.
Ma se l’arte sembra essersi scollata dalla realtà, non possiamo dire altrettanto per il design che più dell’arte sembra avere una partecipazione alla contemporaneità.
Oggi molta parte dell’arte ha come riferimento un nucleo sacerdotale che la celebra. Quest’arte non ha alcuna aderenza con la realtà, non interessa alla società e rimane interna solo al nucleo sacerdotale. Il design è l’uno e l’altro: una parte del design non può permettersi questo lusso perché deve affrontare la produzione. Un’altra parte del design ha cominciato il gioco perverso di imbrigliarsi con l’arte. Pensiamo ai Fratelli Campana: dove finisce il design e comincia l’arte? Il prezzo è da opera d’arte. In questo settore è entrata in gioco la perversione americana che trasforma in arte tutto ciò che eccede nel prezzo. E’ una questione che si sta dipanando: iniziano a non crederci più neanche negli Stati Uniti, anche se hanno subito provato a portare il design di nicchia a Miami, lì dove tutto diventa arte. La situazione comunque sembra stia tornando rapidamente alla norma, anche se non è detta l’ultima parola: le grandi gallerie internazionali, che hanno avuto cali sensibili nelle vendite dell’arte, continuano a spingere sul design caro, dove il cliente capisce l’utilità dell’oggetto acquistato. Non potendo utilizzare l’arte con la testa, sempre più criptica dal punto di vista intellettuale e artistico, il design si comprende da un punto di vista fisico: su un pezzo, per quanto importante, ci possiamo anche sedere. E’ in qualche modo una consolazione… Personalmente credo che il design abbia ancora senso in un’ottica di produzione.
Sul ‘riciclo’ sono nate le grandi civiltà, pensiamo al Rinascimento che è stato costruito riprendendo i resti della civiltà romana. Anche noi possiamo immaginare così il nostro futuro?
No, direi proprio di no. Il riciclo è una cosa ben precisa e circoscritta: un oggetto, usato solo in parte, che viene destinato a una seconda vita. Il motore della civiltà è una questione più complessa, che riguarda il pensiero più che il recupero. Nel nostro futuro immagino certo una maggior frugalità, intimamente collegata con l’idea di riciclo. E questo porterà a rivedere il rapporto con il patrimonio che abbiamo già invece che produrne di nuovo.
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