E’ sempre più tempo di scelte coraggiose per l’ambiente. Lo dicono le ultime mobilitazioni nelle piazze di tutta Europa, lo dicono le giovani generazioni. Non basta alzare la voce in piazza per il cambiamento climatico: serve mettere al centro delle agende politiche questi temi.
Per accelerare la transizione alle energie rinnovabili, sarebbe necessario applicare una tassa su tutti i prodotti in proporzione alle emissioni di Co2 necessarie per produrli. Il ricavato potrebbe essere in vario modo ridistribuito per la promozione delle fonti rinnovabili. Ma la tassa sulle emissioni di Co2 non riguarda ancora tutti i Paesi. La carbon tax, ovvero una tassa che le imprese devono pagare per le emissioni rilasciate, rappresenta una strada per arginare l’inquinamento e il surriscaldamento climatico. In pratica, a ogni tonnellata di Co2 emessa corrisponde un “costo” da pagare per l’utilizzo di combustibili fossili nel proprio ciclo produttivo.
La classifica dei 20 paesi dove si paga la carbon tax
Sono solo venti gli Stati ad aver adottato la carbon tax, secondo i dati 2018 della Banca Mondiale: questi Paesi sono responsabili solo del 4,3% delle emissioni di gas serra nel mondo (mancano all’appello gli Stati Uniti). Di questi venti, 14 si trovano in Europa: anche l’Italia manca all’appello. La normativa più stringente è quella imposta dalla Svezia dove ogni tonnellata equivalente di Co2 costa 127 dollari. Poco sotto i 100 dollari c’è la Svizzera, mentre la Finlandia fa spendere alle sue imprese 77 dollari per ogni tonnellata di Co2. Seguono la Norvegia con 60 dollari e la Francia poco sopra i 50 dollari. E poi l’Islanda (29 dollari), Canada – provincia della Columbia Britannica (27 dollari), la Danimarca (26 dollari), Canada – Alberta, Regno Unito, Irlanda e Spagna (23 dollari), Slovenia (20 dollari), Portogallo (8 dollari). Chiudono la classifica Lettonia, Colombia e Cile (5 dollari), Messico e Giappone (3 dollari) mentre il fanalino di cosa è l’Estonia (2 euro).
Scorrendo l’elenco si può notare l’assenza di grandi potenze mondiali come gli Stati Uniti e la Cina, ma anche paesi europei come la Germania e l’Italia. In realtà, nel Belpaese è stata introdotta alla fine degli anni Novanta con l’articolo 8 della legge 448 del 23 dicembre 1998, ma mai realmente attuata.
La sfida vinta dalla Svezia, dove la carbon tax è più alta
In principio furono i Paesi nordici, i primi a imporre una tassa sul carbonio. La Svezia, lo Stato con la carbon tax più salata, la introdusse nel 1991, con un costo corrispondente a 250 corone (24 euro) per ogni tonnellata di Co2 emessa. Questo aggravio fiscale, distribuito su varie tipologie di combustibili fossili (benzina, diesel, gasolio per il riscaldamento), ha permesso di tagliare del 26% in quasi 30 anni il livello delle emissioni di gas serra. E questo mentre il Pil nazionale aumentava del 78%. In Svezia la carbon tax permette di finanziare diversi progetti ambientali. Soprattutto nei paesi del Nord Europa, la tassazione del carbonio ha un effetto di stimolo sull’economia, specialmente se la distribuzione dei ricavi si traduce in politiche di sostegno alle rinnovabili, alla mobilità elettrica, ai trasporti pubblici, alle città sostenibili
Perché è difficile applicare una carbon tax europea
Un’eventuale tassa sul carbonio nei confini Ue andrebbe infrangersi contro il muro dei Paesi che dipendono fortemente dal carbone. Inoltre dismettere un impianto a carbone in alcune aree di Europa potrebbe produrre conseguenze occupazionali. Per questo occorre un piano di sviluppo per la transizione dei lavoratori dei settori più inquinanti. Pochi mesi fa il comitato StopGlobalWarming.EU ha lanciato un’iniziativa proponendo di fissare in Europa una carbon tax da “un prezzo minimo sulle emissioni di Co2, a partire da 40 euro per tonnellata di anidride carbonica dal 2020 per arrivare a 100 euro entro il 2030”. Il gettito di questa carbon tax andrebbe a finanziare “politiche europee per il risparmio energetico e per l’uso di fonti rinnovabili e permetteranno di ridurre la tassazione dei redditi più bassi”. Si tratta di uno strumento di democrazia partecipativa che consente ai cittadini di proporre modifiche legislative concrete alla commissione Ue, che ha raccolto almeno 1 milione di firme in sette Paesi Ue.
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