Qual è l’impatto degli allevamenti sul riscaldamento globale?
La quota di emissioni che alterano il clima provenienti dal settore agricoltura, foreste e altri usi del suolo è in costante diminuzione tra il 1990 e il 2012. L’azoto che viene applicato con le fertilizzazioni è fonte diretta e indiretta di gas serra. La promozione di un’agricoltura a basso apporto di azoto esporrebbe i terreni a una diminuzione di produttività con la conseguente necessità di dedicare a seminativo un numero maggiore di ettari, con un pregiudizio in termini di conteggio globale di carbonio in atmosfera. Tuttavia è certo che dai fondi concimati nel nostro pianeta si liberano all’anno circa sette milioni di tonnellate di protossido d’azoto, che cagionano un effetto serra equivalente di due miliardi di CO2. Un impatto notevole nella produzione del biossido di carbonio in atmosfera deriva dalla produzione di carne bovina. In effetti un gruppo di ricercatori giapponesi [1] ha appurato che produrre 1 chilogrammo di carne bovina comporta l’uso di 196 MJ di energia e l’emissione di 36,4 chilogrammi di CO2. Per dare un termine di paragone pensiamo che la produzione di un chilo di formaggio comporta l’emissione di 13,5 chilogrammi di CO2, mentre la carne di maiale comporta la generazione di 12 Kg di anidride carbonica per ogni chilo prodotto.
Per quanto attiene ai consumi di carne, si deve registrare un’inversione di tendenza nei paesi sviluppati fra cui l’Italia. Dopo un notevole calo dei consumi, hanno ricominciato a aumentare nel 2018. Secondo i dati pubblicati da Coldiretti, gli Italiani sarebbero però molto più attenti alla qualità del prodotto, rispetto al passato.
In che modo l’interesse alla qualità della carne può contribuire a limitare il surriscaldamento globale?
Il metodo di allevamento dei bovini grass fed indica un’alimentazione degli animali esclusivamente al pascolo e tramite la fienagione: pertanto dalla dieta del bovino vengono esclusi i cereali. Oltre a comportare maggiori valori nutrizionali del prodotto finito, questa metodologia produce un beneficio generale. In effetti, la riduzione della domanda di cereali e mangimi comporta, potenzialmente, minori emissioni di gas serra derivanti da agricoltura e zootecnia. Un maggiore numero di capi di bestiame nutriti interamente a erba avrebbe il risultato di ridurre estese e annuali concimazioni azotate. Ulteriormente a una diminuzione delle emissioni di gas serra vi sarebbe una maggiore disponibilità idrica, derivante dal risparmio do tale risorsa rispetto a coltivazioni che necessitano di un importante apporto di acqua, come il mais.
Come garantire la presenza di terreni per sostenere un allevamento a pascolo – fienagione?
Nel nord Italia si assiste a un frazionamento della proprietà fondiaria, il più delle volte per motivi di successione che, eccezion fatta per il maso chiuso e il patto di famiglia, pregiudica ogni concreto soddisfacimento economico produttivo. Ad esempio la superficie agricola media di un’azienda veneta è pari a 6,8 ettari, ossia oltre un ettaro al di sotto della media nazionale che è di 7,9 ettari. Uno degli effetti della concorrenza è che le aziende minori vengono assorbite da quelle più grandi. Un aiuto nella pianificazione del metodo di allevamento in un dato territorio può derivare dall’associazione fondiaria, un ente tendenzialmente poco conosciuto in Italia, oggetto di riconoscimento giuridico in altri paesi UE come la Francia. Esistono infatti oltralpe le Associations Foncières pastorales e i Groupements pastoraux. In particolare nelle aree montane viene offerta la possibilità ai proprietari terrieri, da parte delle amministrazioni, di acconsentire alla gestione collettiva dei territori, allo scopo di garantire la preservazione e la tutela del paesaggio, prevenendo dissesti idrogeologici. Di estrema rilevanza è il dato che, qualora i proprietari non accettassero tale proposta dovrebbero impegnarsi a mantenere in modo autonomo e diligente la loro proprietà. Qualora nessuna persona dovesse manifestarsi come proprietaria del terreno, i Comuni provvedono alla loro gestione garantendo che nessuno possa usucapirne la proprietà.
Come è possibile strutturare un’associazione fondiaria per la zootecnia a basso impatto ambientale se il legislatore italiano non riconosce tale situazione giuridica?
Il legislatore regionale italiano, come ad esempio il Friuli Venezia Giulia, è intervenuto in materia. Con la Legge regionale n°9/2007 il Friuli promuove i consorzi agro-silvo-pastorali e ogni altro strumento associativo. Viene prevista la possibilità per i Comuni di svolgere funzioni di coordinamento e di costituzione del consorzio, ma anche di dare impulso a forme aggregative di gestione del territorio.
A ogni modo, specie in assenza di disposizioni regionali specifiche, una comunione dei terreni sarebbe regolata dallo statuto di ogni singola associazione, la cui finalità sarebbe di concedere un diritto d’uso collettivo della terra. Nello statuto dell’Associazione sarà opportuno annotare che il conferimento del diritto d’uso non comporterà l’usucapione del terreno.
Il recupero dell’utilizzazione in comune dei territori potrebbe quindi essere uno strumento utile per sostenere il metodo zootecnico in cui l’animale si nutre esclusivamente al pascolo e tramite la fienagione. La conseguenza consiste nell’ottenere un prodotto alimentare di maggiore qualità, andando incontro agli interessi della clientela, più attenta alla caratteristiche della carne. Nel prodotto finale si evidenziano delle maggiori proprietà antiossidanti e un minor contenuto di grassi. A ogni modo la maggiore qualità del prodotto comporta un inevitabile aumento dei costi al consumo. Un ulteriore effetto positivo sulla collettività consiste che a tale dati devono associarsi il conseguente recupero di territori abbandonati, con esiti positivi in termini di adattamento al cambiamento climatico.
Edoardo Lorenzi
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