Anter torna a dialogare con il professor Dipak Raj Pant, antropologo, economista, esperto di strategie per la sostenibilità. Un personaggio di scala internazionale e da tempo sostenitore delle iniziative dell’Associazione nazionale tutela energie rinnovabili.
Ecco l’intervista realizzata col contributo del responsabile delle relazioni istituzionali, Antonio Rancati.
Il professor Dipak Raj Pant e il responsabile delle relazioni istituzionali di Anter Antonio Rancati
Professore, lei ha dedicato la sua vita allo studio dell’equilibrio tra sistemi umani e ambientali, fondando anche l’Unità di Studi Interdisciplinari per l’Economia Sostenibile alla Liuc. Oggi il tema della sostenibilità è più urgente che mai, ma anche più complesso da affrontare. Quali sono le sue indicazioni?
“Ci sono due elementi principali per la sostenibilità: accorciare il più possibile la filiera di ogni prodotto e servizio. E poi dematerializzare per diminuire il volume di tutto ciò che serve nella nostra quotidianità. Le chiavi sono durevolezza, contenuto ridotto dei volumi, riciclabilità, minimalismo e localismo”.
Dal suo punto di vista di antropologo ed economista, qual è lo stato attuale della sostenibilità globale? Ritiene che le istituzioni stiano facendo abbastanza per rallentare il cambiamento climatico, o serve un cambiamento più radicale nei modelli economici e sociali?
“La situazione globale della sostenibilità è molto precaria, regge ancora ma ci sono problemi seri e disequilibri economici, del valore, della distribuzione delle materie prime. Anche i movimenti delle popolazioni, che si concentrano nelle aree urbane, portano a una situazione di maggiori consumi e quindi di minore sostenibilità. Sul fronte del cambiamento climatico l’unica certezza, invece, è che è tutto incerto. Non sappiamo se dipendente totalmente o parzialmente dalle emissioni e dalle attività umane e industriali. La nostra conoscenza è ancora parziale e quindi non ci si può pronunciare. Ma a parità di incertezza, che chiamerei incertezza climatica, opterei per il bello, per il principio di estetica, per le precauzioni, per la riduzione delle modalità usa e getta. E punterei sul rendere gli insediamenti e i luoghi di lavoro più resilienti e meno vulnerabili. Parlando delle istituzioni, direi che si comportano in maniera estremamente variegata da un posto all’altro. Ci sono nazioni come la Nuova Zelanda che fanno frutteti pubblici in modo che le persone possano mangiare cibo fresco. In Italia abbiamo comuni virtuosi che vogliono ridurre le emissioni e gli scarti in discarica. Ma poi sempre in Italia ci sono pure realtà negligenti o che addirittura non se ne occupano di sostenibilità. Spostandoci al livello internazionale il disordine è totale. Su scala europea si è cercato di darsi obiettivi precisi e temporali ma che sono risultati azzardati, perché sono misure unilaterali che incidono pochissimo nell’ecosistema globale. Anche perché Cina e Stati Uniti, ad esempio, hanno bisogno di svilupparsi ancora di più ed è sbagliato obbligarli a non ingrandire la loro economia. L’ecologismo europeo quindi non mi convince. È più una retorica politica che altro”.
Lei ha vissuto per periodi prolungati con popolazioni che abitano in terre selvagge, spesso in condizioni estreme. Quali insegnamenti fondamentali ha tratto da quelle esperienze sul rapporto tra uomo e natura? E quanto possiamo applicarli alla nostra società moderna?
“Le terre estreme come tundra, steppe, altipiani, deserti, villaggi sperduti della savana, dove ci sono condizioni di vita molto difficili, portando le popolazioni al bisogno di ottimizzare le risorse esterne e anche quelle interne. Se però lì è rimasto il presidio umano, allora vuol dire che hanno un modello organizzativo e relazionale interessante. Per questo ci ho fatto lunghi soggiorni. Perché si può imparare molto e si può riportare quanto imparato nella nostra quotidianità. Loro puntano su riuso, durevolezza. E poi ci sono gli aspetti spirituali, come la gestione della vecchiaia dove non ci sono divisioni fra fasce d’età, ma tutti sono in equilibrio fra loro. Nessuno è inutile, nessuno è emarginato. Aspetti da tenere in grande considerazione anche per le aree urbane”.
Come possiamo, concretamente, contribuire alla costruzione di un’economia sostenibile nella nostra quotidianità e nei territori in cui viviamo, al di là delle scelte politiche o istituzionali?
“Noi come singoli e famiglie qualcosa possiamo fare. Se la sostenibilità diventa un movimento di massa alcuni cambiamenti possono avvenire. Dobbiamo frenare l’eccesso di consumismo. Dobbiamo cercare di tenere le cose il più possibile e non considerarle subito obsolete. Bisogna puntare sulla continuità e sul localismo strategico che riduce la logistica, gli spostamenti e le emissioni. E poi ridurre il tempo fra la produzione e il consumo. Alcuni persone hanno già atteggiamenti idonei, ma sono ancora troppo poche. E poi sottolineo come vada ridotta anche la sollecitazione mediatica sulla necessità del continuo cambiamento dei prodotti commerciali. Serve molta attenzione sui messaggi che si fanno passare”.
Anter promuove da anni Il Sole in Classe, un progetto educativo rivolto ai bambini e ragazzi delle scuole elementari e medie per diffondere la cultura delle energie rinnovabili e del rispetto per l’ambiente. Qual è, secondo lei, il ruolo dell’educazione dei più giovani nella transizione ecologica? E che tipo di consapevolezza è più urgente trasmettere loro?
“Il ruolo dei giovani è molto importante. Sin dalla scuola primaria serve un’educazione su come è fatto l’ecosistema planetario, dell’umanità e quello locale. Bisogna partire dalla conoscenza della struttura della realtà, e poi introdurre le soluzioni, come le energie rinnovabili o il riciclo dell’acqua. Conoscenza e soluzioni sono le chiavi. Nelle scuole invece si parte subito dalle campagne di sensibilizzazione. Ma senza conoscenza si fa solo un lavoro superficiale. Il ruolo di Anter, invece, è fondamentale nelle scuole. Saluto tutti i volontari, sono felice ogni volta di tornare da voi e sarò sempre a vostra disposizione”.
Stefano De Biase