Venerdì 19 maggio 2019: secondo sciopero globale per il clima. E il movimento Friday for Future (FFF) continua a chiedere cambiamenti ed impegni tangibili. Impegni che in parte stanno trovando riscontro nei governi europei.
Un anno fa, in UK, nasceva il movimento Extinction Rebellion, il cui logo – significativo – è una clessidra in un cerchio. Lo scopo del movimento, cresciuto sotto l’impulso di un centinaio di Universitari, è contrastare il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità ad esso conseguente. Da novembre 2018, atti di disubbidienza civile sono stati organizzati nella capitale britannica, cercando di radunare e unire le persone intorno all’urgenza di agire. La loro volontà di contrapporsi all’ordine stabilito ed all’indifferenza, sempre in modo pacifico, li ha spinti ad azioni tali da far arrestare un numero importante di attivisti del movimento, evocando episodi già visti e vissuti con altri movimenti politici ed ambientalisti.
Ed infatti, la politica non può più prescindere dai grandi temi ambientali. Lo si è visto con la corsa al selfie che ha caratterizzato la visita di Greta Thunberg in Italia. Ma è anche manifesta, in Europa, la volontà di accogliere la preoccupazione di addetti ai lavori (ricercatori, istituzioni sopranazionali tra cui ONU, WFP, WHO, associazioni, ecc.) e della gente comune: i ragazzi in primis. Così, l’11 maggio scorso, Jeremy Corbyn (leader laburista inglese), con un discorso alla Camera dei Comuni, ha recepito la richiesta dei Fridays for Future chiedendo ed ottenendo dal Parlamento britannico di proclamare lo stato di emergenza climatica.
La dicitura non è banale. Lo stato di emergenza viene promulgato dagli Stati (in Italia, dal Presidente del Consiglio che può delegare il coordinamento al Ministro in carica della protezione civile) al verificarsi di eventi gravi (catastrofi, calamità naturali, attentati) che richiedono mezzi e poteri straordinari per essere fronteggiati.
Fatto sta che l’iniziativa promossa dagli Inglesi si è estesa a macchia d’olio: Canada, Australia, Catalogna, Svizzera e, a seguire, molti comuni in tutto il mondo, Italia compresa, da Acri (Calabria) a Milano. Sono quasi 45 milioni di persone che, così vengono rappresentate. In Italia, esponenti della Camera e del Senato (On. Chiara Braga, Sen. Andrea Ferrazzi), hanno chiesto al governo, lo scorso 21 maggio, di aderire al movimento e dichiarare lo Stato di Emergenza ambientale e climatica.
Lo scopo dell’iniziativa è di portare ad un ingaggio reale della politica, il passare, in tempi rapidi, dal dire (gli impegni presi in sede internazionale, dalla COP di Parigi in poi), al fare, promuovendo con atti e provvedimenti concreti e politici la transizione energetica e la trasformazione del modello economico. Economia circolare, riduzione delle emissioni inquinanti, decarbonizzazione, sono tre esempi tra i molti che necessitano di risposte concrete e, quindi, di mettere l’ambiente e la sostenibilità alla base delle decisioni e non come auspicabile loro conseguenza.
Se si continuasse ad essere ciechi, muti e sordi difronte all’urgenza di agire, il cittadino sarebbe in diritto di continuare a chiedersi, ogni qual volta gli si chiede uno sforzo (e la mente corre ad esempi tanto estremi come i gilet gialli francesi che iniziarono a manifestare con violenza l’opposizione alla carbon tax, come a quelli più banali della semplice raccolta differenziata che ognuno di noi dovrebbe effettuare, ma non sempre fa): “Perché dovremmo agire noi, quando gli altri non lo fanno?”.
Domanda lecita a cui la politica tutta, in modo trasversale, dovrebbe impegnarsi a rispondere. Perché se non lo fa ora, allora quando?
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