Parlando di design e ecologia con Enzo Mari

L'incontro con uno dei maggiori esponenti del design contemporaneo italiano e internazionale

Enzo Mari, designer, classe 1932, ha iniziato a elaborare progetti settant’anni fa vincendo per cinque volte il Compasso d’oro, il massimo riconoscimento del settore. Oggi è considerato non solo uno dei padri, ma la coscienza stessa del design italiano. Nato da una famiglia umile e approdato al design quasi da autodidatta, in ogni momento della sua vita ha sempre sostenuto che industria e design debbano portarsi dietro la parola “uguaglianza”, e che un oggetto debba essere eterno nella forma, alla portata di chi lo fabbrica, comprensibile, apprezzabile e acquistabile da tutti. Nella sua autobiografia, dal titolo 25 modi per piantare un chiodo, si legge: “Spero sempre di incidere sui comportamenti di qualcuno, che farà altrettanto con altri, e così via. La mia anomalia si basa su questo filo ostinato di ragnatela…”. Un lembo di questa ragnatela è stata intessuta per Eco_Design che Mari ha accettato di incontrare per parlare di ecologia e valutare o meno la possibilità di interazione con il design.

 

Che cosa è l’ecologia?

La definisco in due punti. Si tratta di un rapporto corretto in senso generale con la natura ma, dal punto di vista di una promozione, coinvolge l’opinione pubblica perché se l’opinione pubblica è coinvolta, diventa l’unica forza per intervenire sulle decisioni politiche. Si può anche parlare di ecologia per sviluppare ricerche concrete, per capire ed elaborare dispositivi e dimostrare l’urgenza del fare, una promozione sì, ma basata sulla concretezza del fare.

Enzo Mari

Enzo Mari

 

Che cosa è il design?

Il design, che linguisticamente vuol dire “progetto”, a conti fatti è diventato qualcosa che non attiene più al progetto. Questa parola, presa da quel settore dove fino alla fine degli anni ’60 ci sono stati, in concreto, frammenti di progetto o progetti reali, oggi si è trasformata in quella che i sociologi definiscono “parola valigia”, una parola che tutti quanti interpretano sulla base delle proprie necessità. Così design sono i parrucchieri, design sono le pizze, tutto è design in tutte le forme, ma soprattutto è diventata una parola finalizzata al mercato. Forse sono rimasto l’unico a pensare che design significhi ancora progetto. Insomma la percezione complessiva del design da parte degli italiani, si configura quasi (sto cercando di dirlo in modo più semplice) come moda. In questo ambito, il designer può contribuire come semplice cittadino, oppure lo si può motivare un
po’ in quanto esperto di comunicazione, ma non in quanto progettista. Lo stesso designer di oggi non ha strumenti culturali adeguati e poi lavora per l’industria. Lavorare in concomitanza con l’industria a mio avviso è sempre sospetto. Ciò che si produce dovrebbe scaturire sempre da un bisogno etico prevalentemente sincero, ma la maggior parte dei prodotti industriali nasce solo dal bisogno di cose, utili al mercato. Quando si prendono in esame le scelte produttive di aziende di design che parlano di ecologia si scopre che questi interventi corrispondono a non più del 20% delle qualità impiegate, spesso le materie prime non si conoscono, l’aspetto ecologico è sempre riferito alla parte finale di un prodotto. I prodotti implicano consumo di energia, implicano l’impiego di materie prime: petrolio, carbone, ferro, titanio. Chi le controlla? Nessuno è in grado di farlo. La
complessità dei processi produttivi ci impedisce di controllare la qualità di quel lavoro all’origine. Quindi il prodottino che si comunica come ecologico lo è al 15, 20 % ma per il restante 80% è fatto con materiali e processi che sono il contrario dell’ecologia.

 

Un progetto si realizza per l’uomo

Non certo per il commercio: se l’uomo è la componente principale dell’ecologia tutti i miei progetti si possono definire ecologici. Un paio di volte ho realizzato un progetto in cui la parola ecologia non era solo implicita ma anche esplicita. Nel ’92 Alessi accetta di pubblicare un mio libretto dal titolo Ecolo, che contiene le istruzioni dettagliate per realizzare da soli dei vasi di fiori a partire dalle bottiglie di plastica dei detersivi e dell’acqua minerale e su cui si può applicare, se si vuole, un’etichetta rigida con il nome del marchio e quello dell’ideatore. La mia contestazione si indirizzava contro il degrado ambientale ma anche contro quello dell’oggetto firmato: il vaso è secondario rispetto alla composizione floreale.

enzo mari Hido_foresta_operai

L’immagine icona del progetto Hido di Enzo Mari

 

Altri esempi che possano spiegare meglio la sua filosofia?

Nel 2004, al termine di una mia conferenza in Giappone, Sanzo Okada, che aveva acquistato una vecchia manifattura per la lavorazione del legno, mi chiede aiuto. Nella sua regione i legni più nobili hanno lasciato il posto a una crescita invasiva di un tipo di cipresso spontaneo, c’è il problema di come sfoltire i boschi. Quel legno è tenero e pieno di nodi. Mi chiede di progettare dei mobili con questo materiale, ma anche che a lui i nodi piacciono. Incredibile, con un albero centenario di noce si ricavano al massimo due sedie, tutto il resto va in scarto, ce ci sovrastampa finte venature dritte dopo aver chimicamente cancellato quelle naturali . L’azienda ha 200 operai, soffre la concorrenza. Dobbiamo produrre a costi più bassi, una parte del lavoro dovrà essere
industrializzato. Stabiliamo che le operazioni ripetitive alla catena si fanno a turni di piccoli gruppi. Stringo buoni legami anche con i ragazzi, alcuni molto giovani, dell’ufficio tecnico. Quando presentiamo il lavoro, Hido, con una mostra a Tokyo e poi alla Triennale di Milano campeggerà una grande foto di gruppo con tutti gli operai e un testo nel quale spiego che oggi l’ecologia sta nel salvaguardare le persone che lavorano.

 

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