Rahmani, DeBris e Robson: storie di artiste che riciclano

Arte e attivismo ambientalista: un connubio vivificante per l’arte contemporanea

Se già dagli albori del Novecento è stato imposto al mondo dell’arte un modo di creare che veda come centrale il lavoro di riqualificazione di elementi di scarto – dagli oggetti d’uso comune elevati a prodotti artistici dai dadaisti, alla scelta di materiali grezzi dell’arte povera – è però solo dal 1969 che si inizia a parlare propriamente di Ecologic art, espressione coniata dal critico Gerry Schum, per fare riferimento preciso a un tipo di arte dichiaratamente impegnato nella preservazione e (ri)valorizzazione dell’ambiente naturale. Sarebbe da precisare che a volte l’arte contemporanea ha confuso la riqualificazione paesaggistica con la presa di possesso di quel paesaggio stesso. Si è quindi deciso di presentare di seguito i profili di tre ecological artist che riteniamo degne di nota e che crediamo abbiano genuinamente messo la propria creatività al servizio della tutela ambientale.

 

La prima è Aviva Rahmani artista che lavora in maniera interdisciplinare, con la collaborazione di figure eterogenee fra cui non solo artisti ma anche scienziati, architetti e ingegneri. Oltre a opere museali sul rapporto uomo-natura, Rahmani ha portato avanti diversi progetti tesi alla riqualificazione di interi paesaggi. In lei è forte la connessione fra femminile e natura, ed è proprio da questo rapporto privilegiato che prendono le mosse i suoi primi lavori con l’American ritual theatre (1968-1971). Nel 1999 entra a far parte, come membro fondatore, dell’Eco-art Dialog, collettivo di artisti attivi impegnati esplicitamente nella tutela ambientale. Ad oggi i suoi lavori sono centrati tanto sull’analisi dei territori quanto sulla progettualità per preservarli e riqualificarli. Una delle opere più famose, contenente già tutta la poetica dell’artista, è Ghost Nest (1990-2000). Rahmani compra 2,5 ettari di terreno nel Golfo del Maine, località fortemente depauperata dalla pesca intensiva, e passa anni a ristabilire l’habitat della zona prescelta; costruisce una casa a energia solare, dei terrazzamenti, e una riserva d’acqua. Rahmani lavora nella convinzione che cambiamenti adeguatamente guidati in piccole aree possano influenzare, tramite una diffusione artistica dei contenuti, l’intero sistema.

Photo credit: dailytelegraph.com

 

Se il lavoro di Rahmani ha una forte connotazione scientifica, le opere delle altre due artiste sono più direttamente basate sul riutilizzo dei materiali nella composizione. Marina DeBris, artista e attivista californiana, fra le donne del Women Environmental Artists Directory, collabora con diverse organizzazioni di tutela dell’ambiente, quali Friends of Ballona Wetlands, Ruckus Roots and the United Nations Special Assembly on Climate Change, per promuovere consapevolezza sull’inquinamento di mari e spiagge. Nota per aver creato una vera e propria moda definita “trashion” (moda spazzatura), nel suo “Inconvenience store” (negozio “non conveniente”, o addirittura “del disagio”) DeBris vende soltanto oggetti (e vestiti) realizzati con rifiuti trovati sulle spiagge, da quelle veneziane a quelle australiane e californiane, riuscendo così a unire produttività artistica e cosciente provocazione su tematiche ambientali.

Modalità simili a DeBris utilizza anche Aurora Robson. Però diversamente dalla DeBris, i suoi lavori si concentrano sul problema dello smaltimento dei rifiuti urbani; problema che l’artista ha avuto modo di sperimentare in prima persona vivendo in una metropoli quale New York. Da questa permanenza nasce l’idea di riciclare la plastica per assemblare veri e propri organismi fantastici e paradossalmente vitali. Se in un primo momento, il riciclo coinvolgeva spazzatura comune, bottiglie e bicchieri di plastica, in un secondo momento l’artista ha iniziato a realizzare strutture sempre più imponenti ed evocative con residui plastici industriali, spesso illuminate da LED a basso consumo, acquisendo una squisita capacità di creare atmosfere surreali e magiche, che fanno sognare e al contempo riflettere; begli esempi ne “The great indoors”, “Arise”, “Ding Dang”. Nel 2008 poi fonda Project Vortex, organizzazione no profit di artisti, architetti e ingegneri interessati a lavorare con la plastica riciclata e nel 2012 tiene per la prima volta un corso, dal titolo “Sculpture+Intercepting the Waste Stream”, alla Mary Baldwin University.

 

Si potrebbero citare molti altri artisti legati all’idea di arte ecologica, ma lo spazio è poco e il loro numero in aumento. Del resto non resta che augurarsi che sempre più artisti sviluppino un’adeguata sensibilità ambientale e contribuiscano alla sensibilizzazione sui cambiamenti sempre più repentini in atto nel nostro ecosistema.

 

 

Sara Montanari

®Eco_Design WebMagazine

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