Il fenomeno della Fast Fashion: cosa è e quanto inquina?

La verità dietro agli abiti a basso costo della "moda veloce"

Essere sempre alla moda con abiti a basso costo, un binomio che attrae consumatori e aziende. Ma cosa si nasconde dietro la cosiddetta Fast Fashion? Ecco come contribuisce in maniera diretta a rendere l’industria della moda la seconda più inquinante al mondo. 

I capi di abbigliamento presenti sul mercato a basso costo sembrerebbero allettanti perché permettono di non spendere troppo e togliersi più spesso qualche sfizio. Ma cosa si nasconde dietro alla moda low cost? Lavoratori sottopagati, assenza di norme di sicurezza, materiali scadenti e sistemi di lavorazione altamente inquinanti.

Produrre e vendere a prezzi bassi invoglia i consumatori ad assecondare i loro acquisti più impulsivi e ciò si traduce in un guadagno per le aziende. Il risultato finale? Indossare vestiario a basso costo e che dura poco tempo, con conseguenze per l’ecosistema devastanti.

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Cosa è la Fast Fashion e quanto inquina?

E’ il termine utilizzato per indicare la moda usa e getta, capi prodotti di basso costo e qualità, utilizzati una stagione, destinati ad essere buttati via e a finire negli inceneritori.

La Fast Fashion contribuisce in modo diretto all’inquinamento ambientale causato dall’industria tessile,  la seconda più inquinante al mondo, nonché tra le prime per consumo energetico e di risorse naturali. Le tendenze cambiano in maniera veloce e la fast fashion risponde a questa logica: capi sempre nuovi per assecondare la moda.

La filiera tessile della Fast Fashion negli ultimi 20 anni ha causato gravi danni ambientali e sociali, in ulteriore aumento con l’arrivo degli acquisti online.

Dalle tinture dei tessuti, contenenti componenti altamente cancerogeni per l’uomo, alle materie prime utilizzate per la realizzazione degli indumenti, principalmente cotone e poliestere, materiale sintetico altamente tossico derivato dal petrolio, quindi non biodegrabile e non riciclabile.  Queste sostanze tossiche nei tessuti entrano in contatto con il nostro corpo e vengono rilasciate dai vestiti ad ogni lavaggio, contaminando mari e oceani.

Tra i brand Fast Fashion più famosi ci sono H&M, Zara, Topshop, Primark, Benetton, Peacocks, un modello di moda che si è fatto strada  già nella seconda metà del 1900.  H&M esiste, infatti, dal 1947 quando, con il nome “Hennes”  venivano proposti abiti alla moda e a basso prezzo.  Zara fu fondata nel 1975 e dagli anni Ottanta in poi applicò il modello di produzione della “moda istantanea”, stilisti che disegnavano intere collezioni molto velocemente.

La britannica Topshop e l’irlandese Primark furono aperte entrambe negli anni Sessanta. Mango, Forever 21, River Island, Uniqlo e Berskha sono solo alcune tra le più famose e conosciute catene che hanno e continuano ad aprire nuovi negozi in Europa e in tutto il mondo, sostenendo il fenomeno della moda veloce.

Il movimento Slow Fashion, al contrario, ha come obiettivo quello di infondere nei produttori una modalità “più lenta” di confezionamento dell’abbigliamento e  sensibilizzare i  consumatori su quali siano i loro reali bisogni e sul fatto che non necessitano di acquistare nuovi capi ogni giorno. Prima di acquistare qualunque tipo di prodotto, il consumatore dovrebbe chiedersi: mi serve davvero? dove è stato fatto e con quali materiali? quanto durerà nel tempo?

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Fast Fashion e sfruttamento sociale: la tragedia di Rana Plaza

Uno degli incidenti più grandi della storia della Fast Fashion è quello di Rana Plaza in Bangladesh, dove nel 2013 morirono oltre 1000 dipendenti e rimasero ferite più di 2500 persone.

Il Rana Plaza era una fabbrica di abbigliamento nella quale, giorno e notte,  i dipendenti lavoravano in condizioni estreme. Furono loro stessi a notare le crepe sui muri ma i dirigenti li fecero continuare a lavorare, minacciandoli di licenziarli.  Il 24 aprile del 2013 avvenne la tragedia: a Dacca una palazzina di otto piani dove erano collocate 5 diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali crollò. Solo dopo questo drammatico episodio il mondo ha iniziato a rendersi conto di quello che si nascondeva dietro l’industria della moda.

I costi ridotti degli abiti che acquistiamo sono dovuti principalmente alla produzione, che avviene in paesi estremamente poveri come Bangladesh, Cambogia, India e Cina, utilizzando materie prime non sottoposte a controlli.

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The True Cost è un documentaro, diretto da Andrew Morgan nel 2015, che spiega il vero prezzo della moda. Si parla della Fast Fashion Industry, dal tragico crollo del Rana Plaza, alla produzione, alle condizioni dei lavoratori a basso reddito nei paesi in via di sviluppo e all’inquinamento.

Il film spiega il prezzo umano dietro a molte magliette che ritroviamo sugli scaffali. Abiti che contengono materiali sintetici o inorganici che danneggiano gravemente l’ecosistema, in quanto difficilmente degradabili. The True Cost racconta  però anche molteplici esempi di come le persone e i consumatori con le loro scelte possano fare la differenza.

Fashion Revolution  è un’associazione che si batte da anni contro lo sfruttamento sociale nel settore tessile, grazie alla campagna “Who made your clothes?”, dedicata alla moda consapevole che solleva la questione: chi e come vengono prodotti i vestiti che acquistiamo?

 

La  “Fashion Revolution Week” si tiene ogni anno nel giorno del crollo del Rana Plaza per sensibilizzare su ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento e indirizzare aziende e consumatori verso un futuro più etico e sostenibile nel campo della moda.

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