Ombre e luci della voluta (ma difficile) transizione energetica

Quanto è difficile mantenere la promessa fatta a Parigi?

Notizie interessanti dal rapporto del Climate Transparency, federazione di ONG che, a due settimane dal vertice del G20 di Buenos Aires, attualmente in corso, aveva presentato il “G20 Brown to Green Report”. Si legge in questo rapporto che, nonostante gli accordi di Parigi, i Paesi del G20 avrebbero incrementato del 50% i sussidi alle fonti fossili (dai 75 miliardi di dollari del 2007 ai 146 del 2016). Più precisamente: “l’82% dell’approvvigionamento energetico del G20 proviene ancora dai combustibili fossili […] In Arabia Saudita, Australia e Giappone i combustibili fossili rappresentano oltre il 90% della fornitura di energia, con pochi o nessun cambiamento negli ultimi anni”.

 

Lo studio di Climate Transparency prende in considerazione i dati del 2017 in merito alle emissioni dei vari Paesi, nonché il confronto di 80 indicatori di performance, tra cui la decarbonizzazione, la finanza e la vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici e le politiche climatiche. Ne deriva una panoramica completa riguardo agli Stati che si contraddistinguono nel processo di decarbonizzazione.

 

Punti critici e sfumature

La ricerca prevede che in Italia, entro il 2030, le emissioni di gas serra aumenteranno a 449MTCO2 (fatta eccezione per la silvicoltura), nonostante gli sforzi già intrapresi e le varie iniziative politiche (nazionali e regionali). I risultati si pongono in controtendenza con quanto stabilito dagli accordi di Parigi. È una difficoltà che il nostro Paese condivide con buona parte dei restanti Paesi del G20, le cui politiche climatiche sembrano incapaci di concorrere alla limitazione dell’incremento della temperatura mondiale ad 1,5 °C. Solo l’India si porrebbe in parziale controtendenza rispetto a questo scenario, attestandosi sui 2 °C.

 

L’Italia, congiuntamente a Turchia e Francia, rientra fra gli Stati nei qual si registrerà, sostiene lo studio, la maggiore diminuzione della capacità produttiva di energia idroelettrica, a causa dei cambiamenti climatici. L’Italia risulta inoltre tra i Paesi del G20 con più emissioni da edifici e trasporti, nonostante il proposito di garantire, entro il 2020, la circolazione di un milione di veicoli elettrici, e benché entro il 2025 sia prevista la chiusura di tutte le centrali a carbone. Così presentato, il dato illustra un aspetto che concorre a rendere problematica la diminuzione del 50% delle emissioni entro il 2030, obiettivo fondamentale ai fini del conseguimento di quanto ratificato a Parigi.

 

Queste affermazioni sono però da prendere con le dovute cautele, vista la disarmonia che regna tra gli esperti del campo in quanto a previsioni o ipotesi future. Le misure e le valutazioni di raggiungimento degli scopi vanno inoltre fatte inglobando più criteri: metterne a fuoco uno solo, ha poco senso (ad un singolo dato si può far dire qualsiasi cosa).

 

Politiche di riorientamento dei finanziamenti

Nonostante questi dati quindi, è opportuno considerare le difficoltà intrinseche al processo di riorientamento dei finanziamenti (a cui aggiungeremmo anche politiche atte a favorire la transizione energetica da parte dei cittadini, con sgravi ed incentivi fiscali, molto presenti in UE), nel corso del quale, infatti, si impone la necessità di garantire la salvaguardia degli equilibri, specie economici, interni ai singoli Paesi. D’altra parte, numerosi governi del G20 sono autori di progetti politici finalizzati a garantire la sostenibilità del proprio sistema finanziario, promuovendo, inoltre, il riorientamento dei finanziamenti verso un’economia resiliente ai cambiamenti climatici e, pertanto, depurata dall’impiego di carbon fossili.

 

La Francia, l’Unione Europea e il Giappone, per esempio, si contraddistinguono in virtù dell’attuazione di politiche di informativa finanziaria inerenti il clima. Ancora: Italia, Austria, Canada, Unione Europea, Giappone, Sudafrica, Turchia e Regno Unito hanno promosso la collaborazione con il settore privato mediante l’istituzione di gruppi di esperti e di unità operative ad hoc. Relativamente all’industria, è da rilevarsi il virtuosismo dell’Unione Europea, autentico esempio nelle politiche di riduzione delle emissioni. Sud Africa, Russia e Cina, viceversa, presentano la più elevata intensità di emissioni industriali.

 

Solo pochi Paesi, ciononostante, hanno predisposto la graduale eliminazione o il riorientamento dei finanziamenti destinati ai carbon fossili, la notevole diffusioni dei quali rende il Sudafrica, l’Indonesia e l’Australia gli Stati del G20 con la maggiore intensità di emissioni. In più, nessuno tra questi Paesi dispone di politiche funzionali alla graduale eliminazione del carbone: solo il Sudafrica, infatti, ha pubblicato di recente un piano con cui promuoverne la riduzione.

 

Tale situazione ha indotto Jan Burck (ONG Germanwatch) ad affermare:

“Nessun governo del G20 sta affrontando davvero questi settori, specialmente in Australia, Stati Uniti, Russia e Indonesia, che sono tutti in ritardo. Ma alcuni Paesi stanno già andando avanti, come il Regno Unito o la Francia, con la loro decisione di passare rapidamente alla phase out coal e all’eliminare graduale delle auto a combustibili fossili. Per mantenere il riscaldamento al di sotto di 1,5° C, le economie del G20 devono ridurre effettivamente della metà le loro emissioni entri o il 2030.”

 

Una situazione complessa, la cui valutazione implica necessariamente la considerazione dell’esigenze interne ai singoli Paesi e la gradualità di un processo inevitabilmente tortuoso.

 

Antonio Coco

®Eco_Design WebMagazine

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