Nel Mediterraneo vengono abbandonati una quantità di attrezzi da pesca pari all’89% circa dei rifiuti mettendo in pericolo l’intero ecosistema marino. Bycatch, overfishing, reti a strascico e pesca sostenibile sono sono alcuni dei temi che stanno facendo tanto discutere dopo l’uscita del documentario Seaspiracy.
Le reti da pesca sono presenti con una percentuale del 46% nell’ammasso dell’immondizia della più grande isola di plastica del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch), anche in maggiore numero rispetto a cannucce o bottiglie di plastica di cui sentiamo parlare molto più spesso. L’arrivo su Netflix del documentario Seaspiracy, diretto dall’inglese Ali Tabrizi, ha sollevato numerose domande su il problema delle reti da pesca, il bycatch e, soprattutto, su quanto del pesce che arriva in tavola è frutto del sovrasfruttamento dei mari.
Nel documentario si evidenzia anche come molte organizzazioni ambientali, che si battono per l’inquinamento della plastica, non parlano in maniera diretta del problema delle reti da pesca.
“Dal 2003 con la divisione subacquea di Marevivo sono state raccolte oltre 4500 metri di reti abbandonate. Nel 2020, nonostante il lockdown, abbiamo recuperato tra giugno e luglio una rete lunga 70 metri nell’area di Palermo e una di 200 metri nel Circeo. Nel Mediterraneo vengono abbandonati una quantità di attrezzi da pesca pari all’89% circa dei rifiuti“, spiega l’organizzazione che dal 1985 lavora in prima linea per la tutela del mare e dell’ambiente, contro l’inquinamento e la pesca illegale.
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Altro argomento in evidenza in “Seaspiracy” è quello del”bycatch”, ovvero la cattura accidentale delle specie durante l’attività di pesca che ogni anno miete vittime tra delfini, tartarughe marine, squali e razze, uccelli e molti altri animali. Si verifica principalmente perché le moderne attrezzature da pesca, oltre ad essere molto resistenti, possono coprire anche aree estese e non sono selettive, quindi scegliere cosa catturare e cosa escludere è spesso impossibile.
Le reti a strascico sono tra gli attrezzi da pesca più dannosi per gli i animali. Per garantire l’equilibrio degli ecosistemi la situazione auspicabile sarebbe quella di riuscire a pescare la giusta quantità di pesce che permetta alle popolazioni marine di riprodursi e mantenere il proprio numero costante. In questo caso si potrebbe parlare di di pesca sostenibile, ma spesso accade che si oltrepassa questo limite causando l’overfishing, ovvero la sovrapesca.
Secondo un rapporto stilato dalla IUCN, la principale causa di declino ed estinzione delle specie nel Mediterraneo è proprio l’overfishing: circa l’80% degli stock valutati è ritenuto oggetto di sovra-sfruttamento. Squali e razze vengono spesso catturati accidentalmente con le reti destinate a tonni e pesci spada e con le reti a strascico. La diminuzione delle catture delle specie bersaglio ha incentivato i pescatori a immettere sul mercato squali e razze per compensare la riduzione del profitto.
“Sette decimi del nostro pianeta sono blu, il mare è la fonte fondamentale di ossigeno. Dobbiamo agire subito per porre fine alla distruzione del nostro stesso futuro, essendo una specie abitante il pianeta Terra“, commenta Sea Shepherd Italia, organizzazione internazionale senza fini di lucro la cui missione é quella di fermare la distruzione dell’habitat naturale e il massacro delle specie selvatiche negli oceani del mondo.
In Italia la pesca dà lavoro a circa 30mila persone e l’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche sta però impoverendo il Mediterraneo e mette a rischio anche il futuro dei pescatori. “Il problema della sovra-pesca interessa le specie di maggiore valore commerciale, ma anche quelle che vengono catturate accidentalmente da attrezzi di pesca poco selettivi. Si genera così un circolo vizioso che impoverisce gli stock marini e danneggia l’ecosistema, minacciando la sussistenza stessa dei pescatori. – spiega il presidente di Confeuro Andrea Michele Tiso – E’ ugualmente compito delle istituzioni ascoltare le preoccupazioni e le proposte delle associazioni di categoria, per evitare che le nuove regole siano calate dall’alto. Solo una riforma condivisa, infatti, può avere chance di successo”.
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